Le Rune sono l’alfabeto degli Dei, i suoni delle loro voci, pochi segni netti e precisi che gli antichi Germani, i Vichinghi e i Sassoni incidevano sui monumenti di pietra. Ma al di là della loro funzione fonetica e grafica i segni runici, raggruppati in serie di 24 (o 28, 33, 18 o 16, a seconda della provenienza e dell’epoca), sono fondamentalmente dei centri di forza, simboli carichi di potere magico, che sintetizzano un responso, un messaggio degli dei, e funzionano come amuleti protettivi o come talismani portafortuna.
Le Rune, incise sui megaliti, erano i segnali di una presenza particolare nel luogo, oppure fungevano da sbarramento magico, da simbolo protettivo oltre il quale le forze maligne non potevano spingersi.
Grande era il loro potere, per questo la conoscenza di esse doveva restare segreta, rivelata soltanto a pochi eletti che sedevano nella cerchia degli aspiranti al sacerdozio (non per nulla in gotico runa significava “sussurrare”).
C’erano rune scolpite negli ornamenti o sulle armi, inscritte sui calendari, graffiate sui muri e sugli stipiti o ancora intrecciate nelle travi di sostegno del tetto. Ma non finisce qui. Incise una per una su tronchetti d’argilla, legno o osso e poi lanciate casualmente sopra una pelle d’animale, svolgevano la stessa funzione dei dadi o dei tarocchi: predicevano la sorte, offrivano consigli.
Con le rune, perciò, si può fare moltissimo: proteggersi dalla cattiva sorte, procacciarsi la fortuna, ottenere responsi, praticare magia e soprattutto meditare; insomma, ristabilire quel contatto con il sacro